Meridionale

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Reading durante il concerto di Fabrizio Emigli alla Domus Talenti, Roma, 10 marzo 2011

mercoledì 29 giugno 2011

L'amato albero


Altamura, 9 maggio 1799

Adorata Rita,
mio conforto, mia speranza, mio risveglio.
Non vi appaia strana questa lettera che ancora non so se giungerà a voi per mano mia o per quella di altro messaggero, o se, all’inverso, vi capiterà di trovare in modo casuale in una delle stanze di questo amato palazzo.
È così vasta la moltitudine dei pensieri che abita la mia mente, da farmi desiderare di mettere ordine ad ognuno di essi, perché non si corra il rischio, nei giorni a venire, che anche uno solo dei figli di questa amatissima città dimentichi quello che è accaduto nel corso degli ultimi mesi e quello che accadrà a partire da domani, del cui esito non ci è dato sapere, semmai sperare che ancora una volta, come di sovente accadde nella storia di Altamura, si possano ricordare ai posteri le eroiche gesta del nostro impavido popolo.
Non ho pentimento alcuno per aver sposato una sì nobile causa, dacché al di sopra di ogni bene, di ogni fortuna, cui l’essere umano possa ambire, non vedo altro supremo valore che non sia quello della Libertà.
Gli uomini, tutti gli uomini, senza distinzione di ascendenza o di pelle, non vengono al mondo per subire l’oppressione e l’umiliazione imposte dalla tirannia. Così, ogni sopruso che limiti la facoltà di opinare, di manifestare i propri pensieri, di far valere le proprie inclinazioni e i propri talenti, è assai più deplorevole dell’atto di coercizione fisica, poiché mortifica lo spirito in modo più ignobile di quanto la vile forza ferisca il corpo.
Contro l’oppressione dei ricchi e dei potenti, è sacrosanto che ogni uomo insorga, e affermandosi il principio della Libertà non potrà non affermarsi il luminoso principio dell’Uguaglianza, dal quale derivano tutti i diritti e tutti i doveri dei cittadini, e sopra il quale, l’irrinunciabile baluardo della legge dovrà vegliare indefessamente.
Confido nella vostra comprensione, adorata Rita. Altre volte mi avete sentito pronunciare simili parole e sempre amorevolmente avete ripetuto che non poteva trattarsi di semplice infatuazione, perché i miei occhi baluginavano di luce sincera e tutto il mio corpo era pervaso da brividi.
Dovreste vedermi ora, curvo sulla scrivania, a tenermi la fronte nello sforzo di ricordare ogni istante, dal primo giorno in cui questo tempo memorabile ebbe inizio.
Era il dicembre del 1798, allorché nella casa di Giovanbattista Manfredi e in quella di Vincenzo Melodia si tennero le prime riunioni, alle quali intervenimmo, da subito, in molti, affascinati come eravamo dalle nuove idee. Se un così mirabile inizio poté compiersi sotto i migliori auspici fu, senza dubbio, merito della presenza, nella nostra città, di docenti e studenti illuminati, i quali contribuirono, attraverso i loro pensieri e il loro operato, a preparare e rendere fertile quel terreno ove presto avrebbero attecchito i semi degli ideali della Rivoluzione Francese, sospinti dal vento dei moti napoletani.
Altra sorte non avremmo potuto sperare per la nostra amata Altamura, che il privilegio della Libertà conobbe dal suo primo giorno di vita, poiché le fu concesso dall’uomo che qui volle edificarla, affrancandola da ogni balzello e da ogni gravame.
Altamura nacque libera e a tale condizione ambì in tutti i secoli che seguirono, anche quando dové subire le angherie di feudatari-padroni; anche quando, messa in vendita dal barone Gaetani per pagare i suoi debiti, venne riscattata dall’orgoglio dei suoi amati figli che si autotassarono con ogni sorta di sacrificio pur di cancellare l’onta di quell’ignobile gesto.
Cos’altro potrei mai desiderare io, in questa ora tarda e irrinunciabile, se non di portare a compimento, con ogni mia forza ed ogni mio proponimento, il processo di liberazione da ogni abominevole forma di schiavitù dell’anima e del corpo? Quel processo che iniziò a perpetuarsi non nel dicembre del 1798, ma molti secoli prima, perché è nel nostro sangue l’istinto a combattere per contrastare ogni abietta umiliazione inferta agli uomini contro il loro diritto naturale alla Libertà.
Cos’altro potrei mai desiderare, Rita?
Voi mi amate, e questo nobile sentimento io vi restituisco con tutto me stesso. Al pari di voi vorrei poter vedere nel nostro domani una vita insieme, dei figli nostri, le nostre occupazioni e le nostre umane preoccupazioni.
Tutto questo io bramo quanto voi.
Ma a cosa varrebbe mettere al mondo dei figli per costringerli a vivere una vita iniqua ed avvilente? Non avrebbero ragione, essi, una volta adulti, a rimproverarci di aver subito passivamente l’imposizione dei tiranni, senza aver avuto alcun impeto di ribellione contro di loro?
Non possiamo pensare di esimerci dalle nostre responsabilità nei confronti della Storia; la Storia è al di sopra degli uomini, ed io so, lo so per certo, che non mi è data facoltà di sottrarmi a questo dovere morale, perché non mi perdonerei mai di aver portato in salvo la mia vita come un vile, né me lo perdonerebbero i posteri chiamati a giudicarmi.
Domani io mi batterò e lo farò insieme a mio fratello, insieme a Giuseppe Giannuzzi, e a tutti gli altri repubblicani che l’8 febbraio scorso issarono l’albero della Libertà, nella piazza della Cattedrale, tra la folla acclamante e con le lacrime agli occhi.
Si batteranno gli studenti che hanno distrutto le insegne regie, e si batteranno i professori della nostra gloriosa Università. Si batteranno i contadini, armati dei loro strumenti agricoli, ed eroicamente si batterà la Guardia Civica, baluardo della nostra Municipalità.
Con onore combatteranno i miei amici, Leopoldo Laudati, Graziantonio Debernardis, Giuseppe Patella, Nicola Popolizio, Candido Ceglia, Pasquale Viti. A loro va il mio abbraccio di questa interminabile sera.
A loro che con me gioirono alla notizia della proclamazione della Repubblica Napoletana e gonfi i cuori di gioia scandirono ogni articolo della Costituzione del Governo Provvisorio, recitandoli a voce alta, come un inno di vittoria.
A loro e a tutte le sere trascorse insieme a commentare le notizie che ci giungevano per mezzo del Monitore Napoletano: le imprese di Mario Pagano, Domenico Cirillo, Ignazio Ciaja, Gaetano Filangeri, Eleonora de Fonseca Pimentel; i nostri fratelli napoletani a cui non smetteremo mai di rivolgere il nostro grazie per averci regalato il sogno di un governo repubblicano, retto da uomini uguali e liberi.
In cuor mio so, mia devota Rita, che Altamura è stata abbandonata al suo destino, nonostante abbiamo tentato di convincere la nostra popolazione del contrario. I materani, che come noi avevano proclamato la Repubblica, sono tornati presto a sostenere la causa borbonica, e ormai si saranno congiunti alla masnada dei sanfedisti, capeggiata dall’orribile cardinale Ruffo. Quell’esercito di briganti e criminali, assetati di sangue e di razzie, ha potuto risalire incontrastato la Calabria e la Basilicata facendosi precedere da molti emissari e da numerosi proclami nei quali si sollecitavano le popolazioni a rovesciare gli infami alberi e ad innalzare, invece, la Santa Croce e la bandiera regia, veri segni di libertà.
Se solo Felice Mastrangelo e Nicola Palomba avessero attaccato subito Matera, anziché limitarsi a rimproverare i materani di ingratitudine per non aver apprezzato il beneficio che il Governo della Repubblica aveva creduto di procurare alla loro città, dichiarandola capoluogo del Bradano!!!
Ma come posso detestare con tutto me stesso Matera e gli altri comuni che hanno tradito la causa della Repubblica, senza provare lo stesso sdegno per i francesi, che avevano promesso sarebbero accorsi in nostro aiuto, e invece sono arrivati a Cassano e lì si sono fermati?!
Siano maledetti tutti loro, e sopra le loro teste scenda impietoso il giudizio della storia; non sia mai accostato il loro nome a quello della città di Altamura, ché non si possono mettere sullo stesso piano i pavidi e gli eroi.
Si sappia che gli altamurani non hanno mai smesso di credere nei princìpi illuministi che hanno rischiarato i cieli di Parigi e di Napoli, e oggi, più che mai, sono pronti a sacrificare le loro vite in nome di quella fede che ha significato per loro una irrinunciabile occasione di riscatto.
Non vi rattristino queste mie esternazioni, amata Rita.
È vero, debbo riconoscere di essere combattuto tra lo sconforto e la speranza. Più passano i minuti, più sento un peso orribile opprimermi il petto e il respiro mancarmi. Ma poi penso ai miei concittadini che hanno fuso le campane della chiesa di Monte Calvario per creare nuovi cannoni e allora si riaffaccia in me un orizzonte di vittoria, e mi ripeto che tanta dedizione, tanto ingegno e tanto coraggio non possono andare sprecati.
Non ha commosso anche voi vedere la nostra gente portare, il 5 maggio, la statua di Sant’Irene in processione?
Vi confesso di aver pianto in quella circostanza, giacché non ho interpretato quello come un ultimo, disperato, tentativo di impetrare l’intervento divino per redimere le sorti della nostra città. Al contrario, sono certo si sia trattato di un ulteriore atto di forza; di un chiaro messaggio mandato ai nemici, perché sapessero che la nostra vita continuava nonostante tutto; nonostante il loro minaccioso fiato sul nostro collo.
Ricordate quando vi dissi che non decidiamo di venire al mondo e di essere ciò che siamo, ma abbiamo il dovere di cambiare ciò che arbitrariamente gli altri hanno fatto di noi, delle nostre vite? Non dimenticatelo mai! Io non faccio che ripetermelo ogni giorno; e ogni volta che passo davanti all’albero della Libertà, nella piazza della Cattedrale, si rafforza in me la convinzione di aver operato nella maniera giusta; di aver risposto degnamente alla mia vocazione di uomo libero.
Quanto è surreale questo silenzio che precede di ancora poche ore l’inferno che si scatenerà domani!
A chi è dato sapere cosa resterà di questa attesa?
Se a celebrarci sarà un epicedio o un epinicio?
Se io stesso mi ricorderò delle mie parole e potrò da me pronunciarle ancora, o se, al contrario, sprofonderanno nell’oblio di un sonno senza tempo?
La mia angoscia di questo momento è la stessa che ho letto negli occhi dei fucilieri, degli uomini della Guardia Civica e di quelli della Guardia a cavallo; dei contadini e degli studenti, nei campi militari di Monte Calvario e di Porta Matera. Ma pari ad essa era la loro determinazione; la consapevolezza che ogni limite può essere superato quando nel cuore arde la fiamma di una fede.
Rita, perdonatemi se poco fa non ho saputo cingervi nell’abbraccio che avreste meritato; ma mi sarebbe sembrato un addio e più di ogni altra sofferenza io quella non avrei potuto sopportarla. Ora so, invece, che vi rivedrò prestissimo; che sarete ancora al mio fianco e mi camminerete accanto con orgoglio.
So, lo so per certo, che un giorno, non molto lontano, sarete la sposa di Michele Baldassarre, repubblicano altamurano, e i nostri figli ci saranno grati per aver assolto al compito assegnatoci dalla storia: io, difendendo strenuamente l’amato albero della Libertà; voi, dimostrando altrettanto coraggio nell’essere la donna di un rivoluzionario giacobino.


Altamura, 25 giugno 2011

Il 10 maggio del 1799, la città di Altamura fu assediata dall’esercito dei sanfedisti, guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo.
Gli altamurani rifiutarono la resa e si batterono strenuamente, brandendo le poche e, spesso, rudimentali armi in loro possesso.
Animati dall’amore per quegli ideali di libertà ed uguaglianza cui avevano aderito issando l’albero nella piazza centrale, uomini, donne, vecchi, fanciulli, diversi preti che avevano smesso gli abiti talari, studenti e professori dell’Università, non si sottrassero al loro destino, dimostrando sul campo di battaglia un encomiabile valore che portò lo stesso cardinale Ruffo a dire, mesi dopo, di Altamura, che fu “la più fiera e ribellante città che s’era incontrata nel viaggio.”.
Tra i tanti a cadere sotto i colpi dei sanfedisti ci fu anche Michele Baldassarre.
È drammaticamente noto, forse più di altri, l’episodio che racconta dell’ultimo disperato tentativo degli altamurani di opporsi alla prevaricazione dell’esercito filo borbonico, sparando, con i loro cannoni, delle monete, una volta aver realizzato di aver terminato le munizioni.
Quell’inferno durò tre giorni. Al quarto, il cardinale benedisse le sue truppe e procedé verso Gravina, mentre i sanfedisti rimasti, forti dell’indulgenza plenaria concessagli dal Ruffo, continuarono a perpetrare i loro orribili crimini.
Se potete distinguere nitidamente questa voce che vi giunge dal presente, in un luogo, quello in cui ci troviamo, che essuda ancora i cruenti fatti di quei giorni, tenete bene a mente, come monito imperituro, che è privilegio, per noi italiani, poter festeggiare, quest’anno, il centocinquantesimo anniversario dell’unità del nostro Stato, anche grazie al contributo, in termini di vite umane, offerto dai nostri antenati altamurani. A quell’opposizione stoica che valse alla nostra città l’onorevole appellativo di Leonessa di Puglia.


Bartolomeo Smaldone
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